venerdì 16 dicembre 2011

I GIORNI DELL'ABBANDONO, Elena Ferrante

Olga è una giovane scrittrice la cui vita sembra procedere nel migliore dei modi possibili: è felicemente sposata da quindici anni con Mario, l’uomo che ama e col quale ha avuto due bellissimi figli, Gianni e Ilaria. Una famiglia unita e felice che, giorno dopo giorno, cresce e si rafforza nell’equilibrio, nella normalità, nella routine del quieto vivere. A rallegrare le loro giornate c’è Otto, il cane lupo, che con le sue passeggiate e le sue abitudini contribuisce a creare un clima di felice quotidianità. Questo è il quadro famigliare che Olga, narratrice in prima persona, ci permette di scorgere tra le righe di un romanzo che comincia, invece, proprio dalla fine: «Un pomeriggio d’aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi.» Olga non ci rende testimoni dei suoi giorni migliori, ma dei suoi “giorni dell’abbandono” (appunto), attraverso un quadro impietoso del periodo di depressione vissuto dopo la separazione dal marito Mario che, adducendo scuse futili come insoddisfazione, stanchezza e vuoto esistenziale, se ne va di casa senza lasciare a Olga né un recapito né alcun modo per rintracciarlo. Un uomo vile e meschino che scappa dalla famiglia, dalla moglie, dai figli, dal cane, per vivere una nuova vita, una seconda giovinezza (si è infatti innamorato di una ragazza molto più giovane di lui). Olga, rimasta da sola a badare alla casa, ai figli, al cane, attraversa tutte le fasi critiche dell’abbandono, addentrandosi in un viaggio interiore lungo e complesso che la porterà a scavare dentro se stessa, alla ricerca del suo Io, in un percorso di consapevolizzazione che metterà in gioco luci e ombre del suo matrimonio e della sua vita. Inizialmente Olga spera ancora che il marito torni da lei e cerca di riconquistarlo strategicamente con «la messinscena degli agi della vita domestica, toni comprensivi, una mitezza esibita e accompagnata persino da qualche battuta allegra». Al fallimento di questa strategia la mite Olga fa esplodere la rabbia da sempre repressa diventando aggressiva, oscena e volgare: sfoga il suo rancore verso gli amici e i passanti, aggredisce Mario, verbalmente e fisicamente, abborda il vicino Carrano solo per rivalsa personale… Cade in una spirale di odio che presto sconfina nella depressione, magistralmente rappresentata dall’interno tramite il sincero e torrenziale flusso di pensieri della protagonista: confusione mentale, stanchezza, percezione distorta delle cose, ossessione di dimenticare piccoli gesti banali (come spegnere il gas o chiudere la porta di casa), disinteresse verso il mondo circostante (figli compresi) e soprattutto quel desiderio di abbandonarsi, «sprofondare sorda e muta nelle mie stesse vene». A peggiorare la situazione, a Olga comincia a far visita un’apparizione, “la poverella”: fantasma, rievocato dall’infanzia napoletana, di una donna abbandonata dal marito, disperata e inconsolabile fino al disperato gesto finale, il suicidio. In una Torino deserta, soffocata dalla calura estiva, Olga affronta il momento più difficile del suo periodo di alienazione, una giornata terribile: «la giornata più dura di quella mia vicenda di abbandono.» Olga si trova in trappola nel suo stesso appartamento (grazie a una porta blindata che non ricorda più come aprire) senza alcuna possibilità di contattare il mondo esterno (il telefono non riesce proprio a farlo funzionare) alle prese con la figlioletta petulante, la malattia improvvisa del figlio e l’agonia del cane che sembra aver mangiato del veleno… In un crescendo di tensione seguiamo le vicende di Olga mentre lotta contro l’inettitudine e l’alienazione mentale che si stanno impadronendo sempre più prepotentemente di lei, fino a vederla sprofondare nel gorgo della disperazione più assoluta. Un incubo claustrofobico che il lettore, catturato e trascinato in caduta libera fino al fondo più nero dell’animo umano, non può fare a meno di leggere tutto d’un fiato. Da qui in poi la sofferenza sarà solo la fertile base della rinascita, di un lento guarire per cancellare la furia negativa del passato e ritrovare finalmente e «quietamente» (è questa l’ultima parola del libro) la calma e la razionalità.

giovedì 1 dicembre 2011

MADELEINE DORME, Sarah Shun-lien Bynum

Madeleine dorme, e quando dorme è così bella che la mamma e i fratellini stanno attenti a non svegliarla. Madeleine sogna, e quando sogna crea mondi fantastici popolati da creature surreali e grottesche. Una grassona a cui un giorno spuntano le ali, una donna il cui corpo si sta deformando in uno strumento musicale, una vedova con la perversione della pornografia, un uomo flatulento… e poi c’è lei, Madeleine, che fa la contorsionista e ha due palette al posto delle mani. Una galleria di personaggi irreali e fantasiosi, piccole marionette che recitano la loro parte nei sogni di Madeleine ma, al tempo stesso, creature profondamente umane nella loro tragicità e solitudine. Insieme a questa compagnia circense, tanto allegra quanto disperata, Madeleine scoprirà la vita, il sesso, l’amore, la gelosia, la violenza, il sangue, la perversione, in un processo di individuazione e formazione che si svolge interamente sul piano onirico. Il sogno e la realtà si fondono in un unico universo narrativo in cui la mente del lettore, all’inizio spaesata dal confondersi dei piani, si abbandona totalmente all’audace gioco di scrittura: sogno e realtà non stanno mai su piani separati e così gli echi di uno vanno ad influenzare l’altro in un gioco di rimandi e corrispondenze. La Bynum si muove in un territorio già esplorato dai maestri del subconscio ma lo fa in maniera assolutamente innovativa, trovando la sua forza nel gioco di delicati equilibri che le permettono di portare avanti una narrazione perennemente in bilico tra realtà, fantasia e sogno. Attraverso i sogni di Madeleine l’autrice ci racconta senza reticenze le ombre e le mostruosità dell’inconscio, ci racconta l’illecito, il peccato, la colpa, il sesso, il desiderio… Il tutto con una narrazione che procede frammentata in piccole istantanee – qualche frase, una pagina, due al massimo – curate ed autonome, ma che, poco a poco, si fondono in un unico affresco narrativo e romanzesco. Ricco di simboli e metamorfosi, delicato e voluttuoso insieme, Madeleine dorme è una favola moderna che naviga leggera sulle turbolente profondità dell’inconscio. Un libro leggero, soffice, colorato e festoso ma, al tempo stesso, un libro disperato e grottesco, torbidamente impregnato di sensualità.
Madeleine is sleeping è il libro d’esordio di Sarah Shun-lien Bynum grazie al quale è stata inclusa dal «New Yorker» tra i venti migliori autori americani under 40. Ora, a sette anni dalla pubblicazione negli Stati uniti (2004), Madeleine dorme è finalmente uscito anche in Italia, edito da Transeuropa edizioni.

martedì 15 novembre 2011

CONFESSIONE DI UN ASSASSINO, Joseph Roth


Joseph Roth, con una scrittura limpida e profonda, ci accompagna in una catabasi moderna, in una vertiginosa e consapevole discesa nell’inferno dell’anima. Un narratore anonimo – di cui ben poco sapremo anche col procedere della narrazione – riporta nero su bianco la strana e misteriosa vicenda di cui è stato testimone: una notte, in un ristorante russo a Parigi, Golubcik, ex-spia dell’Ochrana (la polizia segreta russa) decide di raccontare la storia della sua vita, coinvolgendo gli avventori in una narrazione orale di straordinaria potenza emotiva. Golubcik racconterà tutto di sé, senza reticenze né vergogne, anche gli aspetti più abietti e reconditi esternando l’ombra che da sempre lo perseguita, come un vecchio rimorso. Inizia così l’autoritratto di un uomo che ha vissuto e conosciuto l’abisso: l’infanzia e la giovinezza passate a sognare di essere riconosciuto dal padre naturale, il principe Krapotkin, il conseguente odio per il suo figlio legittimo, le ambizioni personali, l’arruolamento nei servizi segreti russi, i crimini e i tradimenti del mestiere, la passione per una donna frivola, l’accecante gelosia, l’omicidio. Golubcik ha vissuto un’esistenza dedita al Male fino al tormentato e tardivo pentimento finale che, pur concedendogli finalmente la liberazione dalla schiavitù dell’odio, non gli evita rimorsi e sensi di colpa. Il lungo viaggio di Golubcik verso la perdizione è costellato, nei suoi punti cruciali, dall’incontro con lo strano Lakatos, uomo di mondo elegante ed affabile che, con i suoi consigli luciferini e con il suo incedere zoppicante, è la chiara personificazione umana del Male («Notate, cari amici, con quale crudeltà Dio mi trattava, mettendo questo profumato Lakatos al primo crocevia che dovevo attraversare lungo la mia strada. Senza questo incontro la mia vita sarebbe stata completamente diversa. Ma Lakatos mi portò dritto all’inferno. Me lo profumò persino»). Un racconto metafisico sul potere del Male, sul suo sottile ed ammaliante fascino seduttivo, ma anche un appassionante racconto poliziesco e di spionaggio che si addentra nelle trame e nei crimini del sistema di polizia russo, al tempo stesso un racconto di erotismo e voluttà dove l’amore cede il posto alla passione e la gelosia all’ossessione.

sabato 12 novembre 2011

DOMANI NELLA BATTAGLIA PENSA A ME, Javier Marìas


«Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome». Così inizia il racconto di Víctor, narratore e protagonista del libro di Javier Marías. Tutto comincia con un invito a cena a casa di una donna semisconosciuta, mentre il marito è a Londra in viaggio di lavoro. Dopo la cena e il vino, il bambino viene messo a dormire e i due, Víctor e Marta, si dirigono finalmente in camera da letto iniziando a baciarsi e a spogliarsi. Il finale di quella serata sembra scontato, già scritto, ma improvvisamente Marta si sente male e, in pochi minuti, muore. Víctor deve affrontare la situazione, deve fare delle scelte. Prende tempo, riflette, pensa, pensa, pensa… Decide di non manifestarsi, di non avvisare nessuno, di lasciare che le cose vadano avanti da sole. In quella casa decide di fare solo poche modifiche, banali e di poco conto, ma che in realtà, scoprirà in seguito (e noi con lui), cambieranno la vita ad altre persone. Uscito da quella situazione senza lasciare tracce Víctor rimane mentalmente impigliato nella rete delle implicazioni che quella notte porta con sé, tormentato dalle conseguenze, da quella casa, da Marta, dal bambino, dalla loro famiglia. Come un fantasma che continua a perseguitarlo Víctor rimane vittima di un incantamento (usa la parola inglese haunted per descriverlo) e la morte di Marta diventa la sua ossessione. Tutto ciò che segue è il racconto, reale e mentale, del percorso di alienazione in cui lo ha condotto questa mania: i suoi tentativi di introdursi nella famiglia di Marta, le sue fantasie sulla sorella di lei, il suo comportamento insistente e sfacciato nel voler essere scoperto… A poco a poco Víctor si addentra sempre più a fondo nella vita di Marta, fino a conoscerne verità ed inganni, fino a capirne trucchi, menzogne e ipocrisie. Nessuno è davvero quello che sembra e l’immagine che mostra di sé agli altri è sempre falsata. Víctor capisce che gli esseri umani sono naturalmente così, che basano le loro relazioni sull’inganno reciproco: a una persona si nasconde un aspetto del nostro carattere, della nostra vita e ad altre persone se ne nasconde un altro… E dunque la verità non esiste né nella relazione né in noi, dato che noi stessi ci inganniamo nel nasconderci il vero. Alla fine, anche il confronto con Eduardo, il marito di Marta, mostrerà a Víctor quanto la realtà sia per tutti illusoria ed evanescente, ma al tempo stesso quanto la finzione, se scoperta, ci si mostri intollerabile: «Vivere nell’inganno o essere ingannato è facile […] e anzi è la nostra condizione naturale: nessuno va esente da questo e nessuno è stupido per questo, non dovremmo opporci più di tanto e non dovremmo amareggiarci. […] Tuttavia ci sembra intollerabile, quando alla fine sappiamo». Nel corso del libro conosceremo meglio Víctor, che lavora come ghost writer, o meglio come “negro” nel mondo delle sceneggiature televisive, che è divorziato da Celia (che assomiglia – oppure è – la puttana Victoria), entreremo nel suo precedente processo di alienazione dovuto alla sovrapposizione di queste due donne e ne seguiremo i passi mentre si addentra alla Corte reale spagnola in una rappresentazione grottesca e ironica di un mondo ormai appartenente al passato. Tutto questo con lo stile unico di Marías che ha costruito la sua opera con periodi lunghissimi per dare vita e spessore al flusso di coscienza del narratore. Una scrittura difficile in cui il racconto dei fatti cede quasi sempre il posto alla successione dei pensieri, trasformando una vicenda esteriore in un movimento dell’interiorità. Le frequenti ripetizioni, evidenziate anche grazie all’uso delle parentesi, legano i vari personaggi, trasportando le loro singole e differenti vite su un piano di universalità umana, rendendoli partecipi di un’unica grande storia. Un romanzo, ovvero un racconto di fantasia e di finzione, che riflette sulla finzione dell’esistenza e che, in questo modo, lega scrittura e vita. Così, in appendice all’edizione Einaudi, troviamo il discorso pronunciato da Marías a Caracas nel 1995 in occasione dell’assegnazione del Premio Rómulo Gallegos: una riflessione sul romanzo e sulla simulazione che porta inevitabilmente con sé.

sabato 5 novembre 2011

DOLCENERA, Fabrizio De André



Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é 
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê 
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è 
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

nera che porta via che porta via la via 
nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera nera 
nera che picchia forte che butta giù le porte 

nu l'è l'aegua ch'à fá baggiá 
imbaggiâ imbaggiâ 

nera di malasorte che ammazza e passa oltre 
nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c'è luna luna 
nera di falde amare che passano le bare 

âtru da stramûâ 
â nu n'á â nu n'á 

ma la moglie di Anselmo non lo deve sapere 
ché è venuta per me 
è arrivata da un'ora 
e l'amore ha l'amore come solo argomento 
e il tumulto del cielo ha sbagliato momento 
acqua che non si aspetta altro che benedetta 
acqua che porta male sale dalle scale sale senza sale sale 
acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte 

nu l'è l'aaegua de 'na rammâ 
'n calabà 'n calabà 

ma la moglie di Anselmo sta sognando del mare 
quando ingorga gli anfratti si ritira e risale 
e il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
e la lotta si fa scivolosa e profonda 

amiala cum'â l'aria amìa cum'â l'è cum'â l'è 
amiala cum'â l'aria amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

acqua di spilli fitti dal cielo e dai soffitti 
acqua per fotografie per cercare i complici da maledire 
acqua che stringe i fianchi tonnara di passanti 

âtru da camallâ 
â nu n'à â nu n'à 

oltre il muro dei vetri si risveglia la vita 
che si prende per mano 
a battaglia finita 
come fa questo amore che dall'ansia di perdersi 
ha avuto in un giorno la certezza di aversi 
acqua che ha fatto sera che adesso si ritira 
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c'entra niente 
fredda come un dolore Dolcenera senza cuore 

atru de rebellâ 
â nu n'à â nu n'à 

e la moglie di Anselmo sente l'acqua che scende 
dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle 
nel suo tram scollegato da ogni distanza 
nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza 

così fu quell'amore dal mancato finale 
così splendido e vero da potervi ingannare 

Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é 
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê 
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è 
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

martedì 1 novembre 2011

LE PICCOLE VIRTÙ, Natalia Ginzburg


Undici racconti, a metà tra l’autobiografia e il saggio, che costituiscono, secondo Italo Calvino, «una lezione di letteratura». La Ginzburg raccoglie alcuni suoi scritti che spaziano lungo un arco temporale che va dal 1944 al 1962 e che racchiudono un’ampia gamma di stili e di tematiche differenti tra loro. Quello che rimane sempre invariato, filo conduttore dei piccoli universi narrativi qui raccolti, è l’io narrante, dietro il quale ogni volta vediamo chiaramente lei, Natalia. L’autrice non si nasconde mai dietro personaggi fittizi e ama parlare solo di quello che conosce meglio, di quello che ha sempre saputo e che l’accompagna da sempre… Il suo essere bambina, adolescente, donna e poi madre, la paura della povertà e del regime, la scoperta dell’amore, il dolore atroce causato dalla morte delle persone care, il calore delle piccole cose della vita quotidiana, l’amore per i figli… L’universo della Ginzburg è costellato di piccoli gesti importanti, innocenti e primitivi. La semplicità è il suo marchio e la sua forza.
Per questo un autore come Cesare Pavese, suo caro amico e collega all’Einaudi, ad un certo punto sbotterà nel Mestiere di vivere (5 febb. 1948): «La mia crescente antipatia per N. viene dal fatto ch’essa prende per granted, con una spontaneità anch’essa granted, troppe cose della natura e della vita.». La comprensione reciproca tra i due amici, che incarnano due opposti modi di rapportarsi alla vita e alla scrittura, non sarà mai ovviamente del tutto possibile. Natalia ci lascia in Ritratto d’un amico un commovente ritratto di un Pavese eterno adolescente che «si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principî così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice». Oltre al bellissimo e delicato ritratto di Cesare Pavese, Le piccole virtù contiene racconti che rievocano il periodo bellico, l’esilio in Abruzzo, la povertà e poi la vita in Inghilterra, così come piccole riflessioni su questioni universali ed importanti, affrontate sempre con grande semplicità e concretezza, che vanno dalla questione dei rapporti umani, alla necessità del comunicare con gli altri, al mestiere di scrivere e all’educazione dei figli.
Da Elogio e compianto dell’Inghilterra ho scelto di riportare questo estratto che racconta, con una lucidità ancora attuale, la situazione italiana nel 1961:
«L’Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funzione male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue. È un intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di nessuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana. Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d’un ingannevole, e forse insensato, conforto».

sabato 29 ottobre 2011

LA TRILOGIA DEGLI AUBREY, Rebecca West


Un’unica opera, composta da tre volumi, per un totale di 1236 pagine. Una saga famigliare che si sviluppa dall’autobiografia al romanzo di formazione, fino alla dimensione squisitamente letteraria. Rebecca West affida a Rose, narratrice in prima persona, il racconto della storia della sua famiglia e il vivace affresco di un’Inghilterra che cambia negli anni, partendo dalla fine dell’Ottocento fino al concludersi della Grande Guerra.
Nel primo libro, La famiglia Aubrey, Rose racconta la storia della sua infanzia, da sempre segnata dalle difficoltà economiche. Vivere in una famiglia di artisti non è cosa semplice per i piccoli Audrey. Cordelia, Mary, Rose e Richard Quinn si ritrovano a dover crescere con una madre ex musicista dolce ed eccentrica ed un padre dalla personalità fuori dal comune: scrittore, uomo di pensiero e di grande integrità morale che, a causa del vizio ossessivo del gioco e delle speculazioni, non riuscirà a mantenere la famiglia, finendo per abbandonarla. A far parte integrante della famiglia si uniscono ben presto la zia Constance e la cugina Rosamund.
Nel secondo volume, Proprio stanotte, i giovani Audrey, abbandonati dalla figura paterna di cui ormai accettano la scomparsa (e la morte), si trovano impegnati nella realizzazione di se stessi, in una corsa verso l’età adulta in cui il futuro sembra pieno di sogni e di speranze: Rosamund fa il praticantato per diventare infermiera, Mary e Rose lavorano duro per diventare delle pianiste professioniste, Richard Quinn decide di provare l’ammissione ad Oxford e Cordelia sembra trovare la sua strada nel matrimonio. Sulle prospettive luminose dei giovani si abbatte, però, il flagello della guerra che si porta via l’amato fratello Richard Quinn e poi, stremata dalla malattia e dal dolore, anche la madre Clare.
Nel capitolo finale della trilogia, Rosamund, Mary e Rose, affermate pianiste di successo, vivono dei loro concerti e trovano nella musica l’unica consolazione alla loro solitudine. Infatti le giovani donne non riescono ad allacciare legami di nessun tipo con le persone che frequentano né sperano di potersi mai innamorare, ma continuano a vivere nel passato, nel mondo dei ricordi, non riuscendo in nessun modo a colmare il vuoto causato dalla morte dei genitori e del fratello. Ad un certo punto una notizia inaspettata, il matrimonio della carissima cugina Rosamund, si trasformerà in una spiacevole sorpresa: il ricchissimo marito di Rosamund si rivela un personaggio privo di attrattive e di dubbia moralità. Nel frattempo anche Rose scopre la gioia dell’amore sposando Oliver, un compositore, mentre Mary si rinchiude sempre più nella sua solitudine. Qui termina incompiuto il terzo volume, che, secondo gli appunti della West, avrebbe dovuto contenere anche il ritiro dalla carriera concertistica di Mary.
Rebecca West aveva annunciato anche un quarto volume che avrebbe dovuto portare a conclusione le vicende lasciate sospese e i nodi irrisolti del romanzo. Di questo progetto narrativo ci ha lasciati una breve ma interessante sinossi che si trova nella postfazione al romanzo.
Un cofanetto per lettori audaci e coraggiosi che amano perdersi nel dettaglio delle descrizioni e nel racconto dell’interiorità. Un libro in cui succede poco, in cui tutto è sospeso e le vicende che accadono sono riassumibili in poche righe; un libro in cui abbondano invece le dissertazioni musicali e i momenti di scrupolosa indagine sui sentimenti e sulle dinamiche che regolano i rapporti interpersonali, tra questi nello specifico quelli famigliari. Un libro per lettori che non si scoraggiano davanti a pagine e pagine di vita quotidiana, tinta di magia e di realtà, dove alle domande non viene data risposta e poco conta quello che realmente accade, bensì il riflesso che gli eventi assumono nel vissuto interiore della protagonista. I momenti più profondi e toccanti risultano essere le riflessioni di Rose sulla famiglia e sui propri genitori, soprattutto quando seguono momenti intensi come l’abbandono del padre, l’accettazione della sua scomparsa e la morte della madre, momenti che diventano dei piccoli ed emozionanti capolavori di espressività narrativa.

giovedì 29 settembre 2011

CARNAGE, Roman Polanski


L’ultimo film di Roman Polanski, Carnage (letteralmente "massacro") è basato su Le Dieu du carnage, una pièce teatrale della drammaturga contemporanea francese Yasmine Reza (in Italia pubblicata da Adelphi: Il dio del massacro, 2007). Ci troviamo dunque davanti ad un’opera riadattata per il cinema che però non dimentica le sue origini teatrali e, ambientata totalmente in poche stanze, concentra tutta la sua forza dirompente sulla sceneggiatura e sulla recitazione degli attori. Ambientato a Brooklyn, nell’appartamento dei coniugi Longstreet, il film si apre con la discussione tra due coppie di genitori che vorrebbero risolvere civilmente un brutto incidente avvenuto tra i loro figli undicenni: una provocazione, una bastonata, labbra gonfie e due incisivi saltati. I Longstreet, genitori della parte lesa, stanno cercando di avviare un patteggiamento insieme ai Cowan, genitori dell’aggressore, armati delle migliori intenzioni, cercando di evitare critiche e rancori. Tutto sembra andare per il meglio, le due coppie dialogano e si confrontano in maniera benevola e costruttiva nonostante cominci a serpeggiare un certo malumore, dovuto all’insofferenza e a qualche battutina. Diverse volte i Cowan cercano di andarsene, ma ogni volta c’è qualcosa che li spinge a tornare indietro, un caffè o un pezzo di torta, finché qualcosa, a un certo punto, comincia davvero ad andare storto… Un criceto abbandonato e un’irrefrenabile nausea sono i pretesti attorno a cui inizierà a costruirsi la spirale di odio che invaderà le anime dei quattro protagonisti. Penelope Longstreet (Jodie Foster) scrittrice impegnata, appassionata d’arte e attivista per i diritti umani del Darfur è la buonista del gruppo, convinta di essere migliore degli altri si sente in diritto di fare a tutti la predica sull’educazione dei figli. Michael Longstreet (John C. Reilly), suo marito, venditore all’ingrosso di pentole e sciacquoni (e colpevole dell’abbandono del criceto della figlia), inizialmente amichevole e conciliante, si rivelerà una persona vuota, fredda e insensibile, soprattutto nei confronti della moglie. C’è poi Nancy Cowan (Kate Winslet), operatore finanziario, riservata e signorile, che rilascia il contenuto del suo stomaco sui libri d’arte della signora Penelope e che alla fine, sbronza, manifesterà tutto il suo menefreghismo nei confronti della situazione. Infine c’è Alan Cowan (Christoph Waltz), avvocato di successo, calcolatore e privo di scrupoli, unico personaggio che dall’inizio alla fine si mostra più o meno uguale a se stesso: estremamente maleducato nelle sue telefonate, cinico e poco disponibile alla finzione e al buonismo, dichiarerà apertamente: «Penelope, io credo nel dio del massacro. È il solo che ci governa, in modo assoluto, fin dalla notte dei tempi». La guerra è aperta, la carneficina ha inizio in un alternarsi continuo di ostilità ed alleanze. Per 80 minuti dimenticate il politicamente corretto, i buonismi e le ipocrisie: tutte le convenzioni della convivenza civile crollano a poco a poco, lasciando il posto ad una realtà crudele e spietata. Polanski smaschera e distrugge il sogno americano e l’idea di società civile occidentale mettendo in scena la realtà della barbarie umana. Eppure nella scena finale il regista lascia intravedere una speranza per il futuro: il criceto, inconsapevole protagonista di questa vicenda (e testimone in prima persona della crudeltà umana) è ancora vivo e i due ragazzini giocano insieme: hanno già fatto la pace e scoperto il perdono